Helpenor, cum caput suum fregisset de tectu lapsus, cum Odysseo in Tartaro loquitur

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lunedì 20 dicembre 2010

Argonautiche - Apollonio Rodio

LE ARGONAUTICHE 
APOLLONIO RODIO

Proemio (I, 1-22)

Da te sia l'inizio, Febo, a che io ricordi le gesta
degli eroi antichi che attraverso le bocche del Ponto
e le rupi Cianee, eseguendo i comandi di Pelia,
guidarono al vello d'oro Argo, la solida nave.
Il re Pelia aveva appreso un oracolo, che l'aspettava
una sorte atroce in futuro: chi tra i suoi sudditi
avesse visto venire calzato di un solo sandalo,
quello con le sue trame gli avrebbe dato la morte.
Non molto tempo dopo, secondo il tuo oracolo, Giasone,
mentre guadava d'inverno l'Anauro, trasse in salvo dal fango
un sandalo solo, e l'altro lo lasciò in fondo all'acqua.
Presto giunse da Pelia, per prendere parte al banchetto
che il re celebrava in onore di Posidone suo padre
e degli altri dei: ma di Era Pelasga non ebbe pensiero.
Appena vide Giasone capì, e pensò per lui la fatica
d'un duro e lungo viaggio, sperando che in mare
o tra genti straniere perdesse la via del ritorno.
Come Argo costruì la sua nave, con il consiglio di Atena,
cantano i poeti di un tempo: io voglio invece qui dire
la stirpe degli eroi ed il nome, e i lunghi viaggi per mare,
e tutte quante le imprese che essi compirono
nel loro errare. Siano le Muse ministre del canto.


L'ekphrasis del mantello (I, 721-768)

L'eroe si fissò sulle spalle l'ampio mantello di porpora,
opera della dea Tritonide, Pallade Atena:
glielo donò quando intraprese a costruire la nave,
e insegnò a misurare i banchi mediante la squadra.
Più facile sarebbe stato fissare gli occhi
nel sole nascente che nello splendore del manto,
fulgido rosso nel mezzo, coi bordi purpurei,
e sopra ogni banda effigiati molti episodi
diversi, ma tutti quanti con arte sovrana.
Ecco i Ciclopi, intenti a compiere l'opera eterna,
a fabbricare per il figlio di Crono la folgore,
già quasi pronta e splendente, ma un raggio
ancora mancava, e coi martelli di ferro
lo forgiavano, fiamma bollente di fuoco.
Ecco i due figli di Antiope, figlia dell'Asopo,
Amfione e Zeto, e lì accanto Tebe, ancora priva di torri;
proprio allora ne gettavano, a gara, le fondamenta:
Zeto sulle sue spalle reggeva la cima di un monte
e mostrava nel volto l'immensa fatica; dietro, Amfione
veniva suonando la lira dorata, ed un masso
ancora due volte più grande seguiva i suoi passi.
E poi ancora Afrodite dai lunghi riccioli
reggeva in mano l'agile scudo di Ares:
dalla spalla, la cima del suo chitone era sciolta
sul braccio sinistro al di sotto del seno; di fronte,
lo scudo di bronzo rifletteva l'immagine chiara.
C'erano poi delle mandrie al pascolo e per quelle mandrie
lottavano i Teleboi ed i figli di Elettrione:
per la propria difesa gli uni, gli altri, i pirati di Tafo,
per brama di preda: il prato rugiadoso grondava di sangue,
e i pochi pastori subivano la violenza dei molti nemici.
C'erano poi raffigurati due carri in una gara:
alla guida del primo, Pelope scuoteva le briglie;
accanto a lui sedeva Ippodamia. Sull'altro,
Mirtilo spronava all'inseguimento i cavalli;
accanto a lui Enomao, con in mano la lancia protesa.
Ma mentre balzava a colpire la schiena di Pelope,
si spezzava il mozzo dell'asse e cadeva dal carro.
C'era anche Febo Apollo, ancora ragazzo,
nell'atto di colpire con una freccia l'enorme Tizio,
che strappava il velo di Leto, Tizio, figlio di Elara,
che la Terra nutrì e di nuovo diede alla luce.
C'era anche il minio Frisso: sembrava porgere ascolto
[al montone
ed il montone davvero sembrava parlare.
Guardandoli, avresti fatto silenzio, ingannato dalla speranza
di udire da loro parole assennate, e in quella speranza
per lungo tempo si sarebbe fissato lo sguardo.
Questo fu il dono della dea Tritonide, Atena.

Da notare:
-il tema della ekphrasis (descrizione dell'opera d'arte) è molto frequente nella poesia Alessandrina;
-la più famosa ekphrasis è quella dello scudo di Achille nell'Iliade;
-qui però l'eroe è l'imbelle Giasone, che non  ha più i tratti dell'eroe omerico, ma quelli oramai quasi effemminati dell'eroe alessandrino. 
-è un'evidente gioco ironico di Apollonio che segna, ancora una volta, una vicinanza e una distanza dai suoi modelli.

La notte di Medea (III, 744-824)

La notte portava il buio sopra la terra; nel mare,
i naviganti guardavano all'Orsa e alle stelle di Orione,
desideravano il sonno il viandante e il guardiano,
uno spesso torpore avvolgeva perfino la madre
che ha perduto i suoi figli; non più guaire di cani
per la città, non rumore sonoro: il silenzio
possedeva le tenebre sempre più nere.
Ma il sonno soave non prese Medea: molte ansie
la tenevano sveglia nel desiderio di Giasone.
Temeva la forza brutale dei tori, a cui doveva soccombere
di morte crudele, lottando sul campo di Ares.
Il cuore batteva fitto dentro il suo petto.
Come dentro la casa guizza un raggio di sole
dall'acqua appena versata in una caldaia
o in un vaso, e nel mulinello vibra qua e là veloce,
così s'agitava nel petto il cuore della fanciulla.
Versava dagli occhi lacrime di compassione
e, dentro, la pena la rodeva senza riposo,
insinuandosi sotto la pelle, fino ai nervi sottili,
fino all'estremità della nuca, là dove penetra
il dolore più acuto, quando gli impulsi d'amore, instancabili,
scagliano la sofferenza dentro il petto degli uomini.
E in un momento si diceva di dargli il rimedio fatato,
e poi di non darglielo; anzi, morire anche lei,
e ancora poi di non darglielo, ma neppure morire:
restare ferma, e affrontare la propria sventura.
Poi sedette nel dubbio, e disse queste parole:
"Me infelice, tra quali e quali sventure mi trovo!
Da ogni parte il mio cuore non ha che angoscia e impotenza.
Nessun rimedio alla pena, alla fiamma ferma che brucia.
Come vorrei che mi avessero uccisa le frecce veloci di Artemide,
prima che io lo vedessi, prima che la nave greca
portasse qui i figli di mia sorella Calciope:
un dio o un'Erinni li ha guidati di là per il mio dolore e il mio pianto.
Muoia, se il suo destino è di morire sul campo.
Ma io, come potrei preparare il rimedio,
nascondendolo ai miei genitori? E cosa dire?
Quale il pensiero, l'inganno che mi dia aiuto?
Posso vederlo, rivolgermi a lui solo, senza compagni?
Infelice! Anche quando sia morto non spero di avere
respiro dai mali: allora per me verrà la sventura,
quando avrà perso la vita. Alla malora
il pudore e la fama, e lui, salvo per mio volere,
se ne vada via illeso, dove il suo cuore desidera.
Ma io il giorno stesso, quando avrà compiuta la prova,
morrò appendendo il mio collo al soffitto,
o bevendo il veleno che distrugge la vita.
Eppure anche da morta, lo so, scaglieranno
contro di me le voci maligne; l'intera città
griderà la mia sorte; e le donne di Colchide mi porteranno
con spregio di bocca in bocca, l'una con l'altra:
"colei che amò un uomo straniero, fino a morirne,
e disonorò la sua casa e i suoi genitori,
cedendo alla lussuria". Quale non sarà la vergogna?
Quale la mia sventura! Meglio, meglio sarebbe
in questa notte stessa, in questa stanza, lasciare la vita
per un destino nascosto, sfuggendo a tutti i rimproveri,
prima d'avere compiuto colpe innominabili".
Disse, e cercò il cofanetto dov'erano tutti
i suoi filtri, quelli benefici e quelli mortali.
Gemeva, tenendolo sulle ginocchia, e bagnava
il seno di lacrime, che cadevano fitte,
senza tregua, mentre pensava alla sua terribile sorte.
Desiderava scegliere i filtri mortali
ed inghiottirli, e già nel suo desiderio, infelice,
scioglieva i lacci. Ma d'improvviso le venne nel cuore
una cupa paura del regno odioso dei morti.
Restò a lungo muta, sgomenta. Davanti a lei
passavano tutte le dolcezze dell'esistenza:
ricordava i piaceri che toccano ai vivi,
le gioiose compagnie della sua giovinezza,
e il sole apparve più dolce di prima ai suoi occhi,
quando passò ogni cosa al vaglio della ragione.
Depose dalle ginocchia il cofanetto, mutando pensiero,
secondo il volere di Era, e non dubitava
più tra diversi progetti: ma desiderava
che venisse subito l'alba, per dargli il filtro
che aveva promesso e poterlo vedere nel volto.
E spesso apriva la porta della sua camera
spiando la luce, e finalmente l'aurora
le portò il sole agognato, e tutti si mossero per la città.

Da notare: 
-un inizio quasi "dantesco" per la qualità della descrizione per immagini paesistiche;
-alcune notazioni psicologiche sulla fenomenologia dell'amore; in qualche modo simile alla poesia di Saffo;
-la presenza di un soliloquio interiore che si avvicina quasi al dettato poetico della tragedia. Da ricordare a tal proposito la similitudine tragedia-epica e il fatto che Medea era una famosissima tragedia di Euripide.

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